escursionismo


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Sabato 17 novembre 2012

Bella escursione, in zona poco frequentata, al Monte Giove (Ciòve per gli abitanti del luogo) nel Gruppo montuoso del Novegno, che si estende tra la Val Pòsina a nord e la Val Leògra a su. L'escursione si snoda lungo i sentieri della Grande Guerra, numerosi sono i resti di fortificazioni in roccia, manufatti e trincee costruiti durante il conflitto dai soldati italiani, a difesa della retrostante pianura veneta, mèta agognata e a lungo sognata dai vertici militari dell'impero Austro-Ungarico. Per questo motivo i luoghi sono stati pesantemente coinvolti nel primo conflitto, anche perchè a ridosso della prima linea.
Ricca la presenza di fauna, con il camoscio a far da padrone e uccelli rapaci che volteggiano nel cielo.

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Foto della Rievocazione Storica del 2005, sul Monte Novegno.
























monte giove 1596 m. - gruppo priafora' - novegno


 

“Odio la guerra, ma amo coloro che l’hanno fatta “
Francis Scott Fitzgerald, Tenera è la notte

« Se si tira una lunga linea retta e, giuntine al termine, si alza una breve verticale, poi prolungandola verso il basso con una linea parecchio obliqua sulla destra, si schematizza con notevole approssimazione l’ossatura del Novegno, un robusto complesso prealpino che trae la denominazione dalla sua massa più cospicua, in effetti costituita da una numerosa famiglia di poco marcate sommità
« Tuttavia non si possono trascurare altre elevazioni, quali innanzi tutto il Priaforà, che fra tutte è anzi la più elegante e ardita, oltre che suppergiù alla pari in fatto d’altitudine; oppure il Summano, con la sua gagliarda mole ergentesi direttamente dalla pianura tra Schio e Piovene Rocchette.
« Nella poco accennata depressione di Colle Xomo, il Novegno trova la saldatura col Pasubio; da questa località il cennato profilo orizzontale s’eleva pigramente nella lineare dorsale di M. Alba, calando poi un passo appena sul Colle di Posina, donde s’alza a M. Spin, che funge da piedistallo per il successivo e deciso balzo con cui giunge ai bei roccioni calcarei di M. Caliano e più su ancora al M. Rivon.
« Siamo adesso sul culmine del Novegno, in realtà costituito da una inattesa ed ampia scodella pascoliva, sui cui bordi s’ingobbano placidamente vari montucoli, quali affacciati sui ripidissimi costoloni e canaloni che scoscendono sulla sottostante vallata del Posina e quali rivolti alla pianura vicentina, verso cui lo sguardo può rilassarsi un attimo nell’incontrare il delizioso gradino formato dal piccolo Altopiano del Tretto. Siamo ormai prossimi all’incontro con la linea verticale e della giunzione s’incarica l’alta e ben marcata insellatura di Passo Campedello, donde si divalla precipitosamente a settentrione per quasi un migliaio di metri, lungo scivoli erbosi e precipiti ed umidi canaloni che s’immergono nelle cristalline acque del Posina presso la Strenta; invece a mezzodì si cala in breve sull’estremità orientale del Tretto.
« Al sommo della verticale signoreggia il triangolare, arcigno M. Priaforà; retrocedendo brevemente dalla vetta, s’incontra una selletta sul cui diaframma roccioso s’apre un foro naturale, l’occhio ciclopico che dà il nome al monte.
« Sempre procedendo all’indietro, lungo il dorso del crestone che s’affaccia a destra sulla sottostante e ben profonda conca d’Arsiero, s’incontra prestamente il ben marcato groppone di M. Giove. Ancora qualche passo indietro e siamo all’altezza di Passo Campedello, dove l’ossatura diverge nettamente sulla destra, repentinamente abbassandosi sul M. Brazome, sul M. Rosso Covole ed infine sulla vasta depressione dei Colletti di Velo, donde prende il via quel movimentato crestone che gradatamente va a montare fin sulla vetta del M. Summano. Ai pochi e malagevoli sentieri che portavano sul Novegno, sul Summano e al Passo, tratturi per greggi e pastori, in brevissimo tempo la guerra aggiunse due ardite camionabili che, partendo entrambe dall’estremità occidentale del Tretto in prossimità del villaggio di Cerbaro, salivano alla conca sommitale vincendo l’una l’erto declivio occidentale e l’altra quello meridionale, non meno ripido, infine congiungendosi all’ingresso della già menzionata conca. La prima rotabile è ancor oggi agevolmente percorribile con automezzi. »
Abbiamo preso integralmente questo brano da Gianni Pieropan  “1916 Le montagne scottano”,  perché non solo fornisce un’immagine fedele della zona del Novegno - Monte Giove con quelle caratteristiche ambientali che non è dato scorgere dal basso, ma anche perché ci dice che da qualunque parte lo si osservi, il gruppo Novegno-Priaforà dà esatta l’impressione di costituire un estremo e cospicuo baluardo verso la pianura vicentina, come in effetti avvenne durante l’offensiva austriaca di primavera 1916 che va sotto il nome di Strafexpedition.
Dal punto di vista storico, gli avvenimenti accaduti fra il 30 maggio e il 12 giugno 1916 in questa ristretta zona (Torre di Vaccaresse – Passo Campedello – Monte Giove ) sono forse ancora più importanti di quelli successi nei vicini Conca di Arsiero – Altopiano di Asiago : ma, mentre delle altre zone investite dalla Strafexpedition esistono buone opere descrittive sia di carattere alpinistico che turistico (e in effetti quelle zone, vedi l’Altopiano di Asiago, sono più frequentate e più usufruite dai flussi turistici), nulla di tutto ciò è rintracciabile per il Novegno e il Priaforà, montagne tagliate fuori ancor oggi dalle correnti turistiche.
Noi siamo stati lassù : accompagnati da Paolo Bellotto e dalla Sig.ra Maura ― che voglio qui ringraziare ancora una volta ― in una splendida giornata novembrina con cielo azzurrissimo e un’aria frizzante e pulita, abbiamo risalito le vecchie mulattiere di guerra, siamo entrati nell’osservatorio Sailer che vigilava la conca di Arsiero, abbiamo sostato nel luogo dove cadde il maggiore degli Alpini Tito Caporali, cui è dedicata una lapide ed un altare, per poi arrampicarci sul M. Giove e scendere al Passo Campedello.
Di quei giorni non è rimasto molto : un po’ per l’inesorabile trascorrere del tempo, un po’ per l’avanzare di una vegetazione sempre più folta e infestante, e un pò anche per l’incuria e la noncuranza di chi dovrebbe vigilare e curare quelle zone.
Del famoso “trincerone di M. Giove”, scavato dagli alpini in una sola notte per difendersi dagli attacchi austriaci, e immortalato in numerose foto di guerra, è rimasta una vaga traccia che chi non sa, non riconosce; i resti del cimitero di guerra, lì vicino, non sono neppure indicati; sono rimasti, è vero, i trinceramenti in roccia, le opere fortificate in cemento, i formidabili capisaldi del Priaforà e della Torre di Vaccaresse, che si offrono muti all’interesse dei visitatori : ma ci vorrebbe un adeguato percorso storico che li valorizzasse e facesse comprendere quale fosse l’importanza attribuita al settore Novegno - Priaforà - M.Giove.
Per essere quelle posizioni quasi subito diventate settore di retrovia, non più coinvolte nell’ulteriore andamento della guerra, un velo di dimenticanza più fitta del consueto si è steso su eventi che però, ad un certo momento, per quasi due settimane, assunsero un’importanza veramente decisiva.
Infatti, proprio lì si concluse l’offensiva austriaca ; e il colonnello Kurt Schneller, dello Stato maggiore austriaco, autore del piano operativo contro l’Italia, nel suo diario di guerra scrisse : “Mancò un soffio… la pianura era si può dire a portata di mano, ma mancò lo slancio e la decisione”.
In effetti, nei giorni 12 e 13 giugno 1916 i Kaiserjager, sostenuti da una poderosa massa di artiglieria, attaccarono più e più volte quelle posizioni, ma gli italiani non mollano d’un palmo, la loro difesa appare insuperabile, ed il nemico deve ripiegare. Anche la sua artiglieria, trainata lassù con sforzi colossali per l’assoluta mancanza di strade adeguate, deve rassegnarsi, il tiro va man mano calando, per poi affievolirsi e tacere. Una tabella storica (e con indicazioni sbagliate…) che si trova vicino al monumento eretto al Passo che ricorda i reparti combattenti, ricorda anche che sulle contese posizioni la sera ormai imminente stende un’effimera pace, pietosamente coprendo le tragiche testimonianze della battaglia : non un prigioniero gli italiani hanno lasciato in mano al nemico, i 250 dispersi accertati sono stati perciò ridotti ad irriconoscibili brandelli dall’artiglieria austriaca.
Il Comando austriaco non vuole però cedere, vuole sfondare ad ogni costo; chiede perciò l’ aiuto di una brigata alla vicina III Armata che operava sull’Altopiano di Asiago; alla III Armata apparteneva il XX Corpo d’Armata comandato dall’Arciduca Carlo, che sarebbe diventato poi Imperatore d’Austria alla morte di Francesco Giuseppe nel 1917, e questi ne fa richiesta all’Arciduca Eugenio, comandante del Gruppo d’esercito che operava in Italia.
Al comando Gruppo d’esercito, in quel di Bolzano, l’Arciduca Eugenio manifesta pieno accordo con i sottoposti, ma obietta che bisogna pur parlarne con il gen. Conrad, che sta a Baden e che nel frattempo sa Iddio quante gatte da pelare gli abbiano procurato gli italiani prima e italiani e russi adesso (l’offensiva di Brussilov in Bucovina era iniziata il 4 giugno).
Telegramma alla mano (è lo Schneller che riporta l’episodio), Conrad esplode : « Ma come, l’11aArmata, con tre Corpi d’armata, coi mezzi e gli uomini di cui disponeva non è stata in grado di sommergere il Novegno e lo vorrebbe riprovare proprio adesso che gli italiani crescono ad ogni dì che passa e con una sola brigata in più? Matti, sono matti e Dankl (il comandante dell’11aArmata) sragiona, non ha mai ragionato ! ».
Il Comando Supremo imperiale chiama Bolzano, l’Arciduca Eugenio sente la burrasca in aria, chiama Dankl e gli scarica addosso i fulmini di Conrad.
Dankl s’infuria, chiede di essere esonerato, ciò che gli è concesso seduta stante, ed è una forma come un’altra per mandarlo a spasso. Il 17 giugno il gen. Rohr assume al suo posto il comando dell’11aArmata, ma senza più attaccare.
La battaglia del Novegno si conclude praticamente nelle lontane e più gallonate retrovie imperiali ― e con essa si chiude anche la Strafexpedition, iniziata il 15 maggio precedente. Mancò veramente un soffio perché gli Austriaci sfondassero e scendessero in pianura.

*  *  *
Siamo scesi per il bosco, attraverso l’impluvio della val Brazome, fino alla località di Alba. Il bosco è un bosco di faggi (uno era veramente grosso, sarà stato di sicuro centenario); c’erano anche molti altri alberi, ma i faggi sorgevano con la loro forza, con quei tronchi come di metallo grezzo, mettevano gli altri alberi in sottordine. La forza sottomette da sé, senza accorgersene, anche se non si adopera.
Sugli alberi c’erano foglie che erano gialle, altre che erano ancora verdi; c’erano anche alberi che erano verdi del tutto, forse erano di quelli che restano verdi per tutto l’anno.
Ma gli alberi con le foglie gialle avevano una dolcezza, pareva che il sole prima di abbandonare quelle foglie per sempre, avesse lasciato in esse il ricordo di sé; c’era come una vibrazione di luce in esse. Il giallo arido delle foglie secche era diventato come oro. E ora quelle foglie non parevano morte : pareva che dormissero, e sognassero il sole.
Le foglie gialle che erano cadute, facevano come un tappeto sul sentiero, e le calpestavamo morbidamente. Erano come le foglie gialle appese agli alberi, ma esse erano veramente morte, la terra se le era già prese, la terra non si lascia scappare niente, essa è sempre occupata a trasformare la vita in morte, la morte in vita, ha sempre bisogno di rifornimenti.
Sono stato contento di quella giornata; sono stato contento di passare per quel bosco; ed ero contento che la giornata fosse così splendida, con il sole che faceva quella gioia agli alberi; e l’autunno ormai avanzato non sembrasse una malattia, come quando l’autunno porta la pioggia o le nebbie, e la natura non sa dove ripararsi, ed è triste come se fosse rimasta sulla strada, e non avesse più casa. Ll’erba era ancora verde, ma con stanchezza; forse cominciava a rassegnarsi.
E per finire la Elsa ci ha fatto assaggiare una sua torta, fatta di frutta, era dolcissima : e anche quella torta dorata mi sembrava fatta da qualcuno che voleva bene agli alberi, e l’avesse fatta apposta per fare compagnia ad essi.

 

Patrizio Cazzaro, novembre 2012